Schegge

A lei toccava cercare radici, raccogliere semi e frutta cadute dagli alberi più alti. Gli uomini andavano a caccia.
Lei era “femmina”, cosa che, appena divenuta ragazza e, quindi anche fertile, aveva rappresentato, ad ogni ritorno della luna piena, trovarsi macchiata di rosso, sporca. Aveva anche significato, ma questo sin da piccola, assistere le donne che facevano nascere un nuovo individuo, tra urla e dolore.
Gli uomini, invece, si allontanavano da tutto ciò, perché loro con quelle miracolose apparizioni di nuovi maschi e femmine, non c’entravano per nulla, non ne erano, in effetti, responsabili. Si allontanavano, sì, ma non dalle donne, appena queste fossero divenute fertili. Sembravano sentirlo dall’odore e si distraevano mentre ricavavano dalle grosse schegge di pietra strumenti per la caccia. Schegge, più grandi, che divenivano sempre più piccole ed appuntite ed altre, minuscole schegge, che volavano intorno alle mani forti, adatte a battere le pietre. Intelligentemente, perché erano divenuti sapiens sapiens. Era un lavoro, di solito, lasciato agli uomini più anziani o feriti e meno adatti ad affrontare gli animali fuori delle grotte. Da bambina passava ore ad osservarli. Seguiva in silenzio, badando a non disturbare, l’andatura un po’ sghemba di Ongo, che cercava intorno materiale adatto allo scopo. Dovevano essere rocce di una certa durezza, tale da potersi usare come strumenti di difesa e di attacco con le grosse belve dai denti lunghi, sulla punta delle lance, ma anche per scuoiare gli animali e ricavarne pelli. Le donne ripulivano le pelli dal grasso e dai residui e ne confezionavano indumenti, inoltre tagliavano la carne, staccandola dalle ossa. Inguto (questo era il suo nome), era stata sempre molto curiosa rispetto alle schegge di pietra: alcune erano bellissime, avevano venature colorate, altre erano morbide e potevano essere più facilmente lavorate, ma non risultavano utili per nessuno scopo pratico. Ongo le osservava, le batteva sulle rocce, le scheggiava e poi, per alcune di esse, decretava l’inutilità e le lasciava cadere. Erano proprio quelle dal colore più vivo e Inguto le raccoglieva per sé. Né Ongo, né Inguto sapevano di vivere nei Carpazi e che quel luogo in un tempo infinitamente lontano da loro si sarebbe chiamata a "Pestera cu Oase" (che in rumeno significa «cava di ossa»). La caverna era stata dipinta con i colori della natura dal grande mago Timango, per aiutare gli uomini nella caccia. Ma a lei piaceva intagliare piccole figure umane ed altri oggetti nelle rocce e nelle ossa, ed aveva appreso osservando Ongo,seppure con finalità differenti. Lei era una femmina moderna ed oltre a ciò che risultava essenziale per l’ordinario, aveva un cervello adatto all’immaginazione. Ecco perché vedeva (come secoli dopo avrebbe fatto con più grosse schegge il grande Michelangelo), vedeva, dunque, in quelle piccole pietre, l’oggetto che vi avrebbe tirato fuori: una figura femminile dai grandi seni ed il ventre gonfio di un nuovo nato, per apportare fecondità alla terra, ma anche un animale agile come quelli che gli uomini cacciavano e le cui corna divenivano utili strumenti. Oppure, nei gradi denti degli animali più pericolosi Inguto ricavava pettini, da inserire come abbellimento, tra i capelli, dopo averli usati, con metodo, per renderli più docili e fluenti. Perché Inguto era divenuta bella. Era divenuta adulta. Un giorno, specchiandosi nel piccolo lago d’acqua vicino alla caverna, oltre al proprio volto vi aveva visto quello di un uomo che non era della tribù. Si era girata di colpo: ma dietro di lei non vi era nessuno. Lei viveva assieme a quella che si potrebbe oggi definire “famiglia allargata”, in un gruppo di non più di venti elementi. Da poco erano venuti al mondo e periti due cuccioli di uomo, cui le madri non avevano potuto dare il latte e che erano stati lasciati a morire nel fondo della grotta, sotto le pitture parietali; ma i corpi erano stati coperti perché i loro canidi frutto delle prime forme di addomesticazione, non li divorassero. Poi lo rivide, mentre si bagnava per levarsi via dalla pelle la polvere che si era procurata nel lavoro con le pietre. Lui l’osservò: trascinava dietro di sé una grossa preda. La guardò fisso e lei uscì dall’acqua senza vergogna e senza paura. Sapeva che il maschio giovane e sano cercava una compagna e l’avrebbe acquistata dagli altri con l’animale cacciato. Così fu. Ma gli uomini del villaggio preferirono restasse con loro: avevano bisogno di donne e di nuovi cuccioli d’uomo. Divennero una coppia ed ebbero uno spazio per loro e Inguto fece un focolare di pietre e vi accese un fuoco e restò a far sì che non si spegnesse, sempre lavorando le sue schegge colorate. Poi la sua pancia crebbe come la sua fame. Amobo, il suo uomo, le procurò il cibo e le accarezzò l’addome ogni sera, pronunciando il nuovo nome: Amoto. Voleva una femmina. Invece, nacque Boto e lei urlò per molte ore senza che lui si allontanasse come facevano gli altri maschi e poi lo pose al seno e il piccolo trovò latte per la vita. Amobo l’osservò con stupore, prese le piccole dita delle mani tra le sue e rise quando Boto le strinse, con lo stesso orgoglio che avrebbe avuto per una grossa preda e poi si batté la grande mano sul petto e disse qualcosa cui oggi daremmo il significato di “mio”. Inguto fece al piccolo un giaciglio di foglie e gli mise al collo una sottile pelle cui aveva attaccato la scheggia più colorata e bella che aveva trovato: era del colore del sangue e sembrava brillare nel buio. Ne aveva una anche per il suo grande e forte compagno e sorridendo lo costrinse ad abbassare il capo per passargli al collo la pelle che la sosteneva. Lui l’osservò perplesso, poi sembrò comprendere che quella scheggia, così come quella che splendeva al collo del cucciolo, erano il segno dell’amore che la donna aveva per lui e per la prima volta in quella caverna si vide un grande maschio adulto versare una lacrima, una sola, per la gioia.
Bianca Fasano