Scialoria. Storia di una femmina d'ulivo.

La notte di san Silvestro del 1979 ero ancora un albero. Femmina.
Una scialoría di quattrocento anni, ancora giovane. Ottobraricu, il mio compagno, ne aveva ottocento di anni e sembrava un giovinetto. Tronco ben piantato, radici che toccavano le mie già da quando io ne avevo compiuti cinquanta. Mi piaceva Ottobraricu.
Ed io piacevo a lui. Sul suolo distanti ma sottoterra amanti.
Lui si pronunciava in ottobre quando tutti gli altri ulivi, me compresa, risultavamo senza più niente da dire. Lui regalava ancora ulive. Belle. Piccole. Senza pretese. Perciò mi piacque subito Ottobraricu! Un gigante dalla chioma che toccava i trenta metri ma buono e mite. Dolce come quando la brezza avvicinava le nostre fronde e con le sue foglie accarezzava le mie. Le mie radici le intrecciavo solo con lui. Nonostante che sia Ped’i sorta, sia Caloredu, gli altri ulivi, mi facessero una corte insistente. A me non piacquero mai, né l’uno né l’altro. Ped’i sorta con quei frutti grossi come noci e inconcludenti. Così pure Caloredu con quelle olive piccole e svigorite.
Col tempo ebbi un tronco possente, radici profonde che toccavano il caldo del sottosuolo e si espandevano tutt’intorno fino a sfiorare gli aranci piantati da novant’anni appena e i limoni e il pergolato e la vigna. Mi piaceva sentire gli umori di tutti. Sentirmi viva non solo sotto la luce del sole ma anche nelle tenebre della terra. Ospitavo, tra le mie radici, tane di talpe e di qualche cagna senza padrone ma con numerosa cucciolanza.
Non ricordo chi fu a piantarmi. Ma sento ancora la sua energia e il suo amore. Mi difese, questo sì, dalla protervia di chi voleva che in quella terra vi fossero solo gelsi. Perché solo gelsi c’erano da secoli e secoli. Perché solo il baco si doveva fare. Solo la seta era fonte di guadagno e se la terra valeva ancora qualcosa era perché c’erano i gelsi. Il baco fonacedu. La seta. Ma i tempi stavano cambiando e qualche ulivo era già stato piantato. Tra cui Ottobraricu mio. Allora il padrone di quelle terre decise che sì ci sarebbero rimasti i gelsi ma che «Gnursì» anche gli ulivi.
E scelse me. Femmina. Scialoría. Perché le mie olive erano più succose, più piene e l’olio veniva anche solo a guardarle.
Ma quella notte, l’ultima della mia vita di scialoría, me la ricordo appena.
Il mio sradicamento fu inevitabile perché, qualche tempo prima, un umano ignorante degli equilibri delicati della campagna della Piana, abbatté sei cipressi che erano stati piantati da suo nonno a guardia delle folate di vento gelido che da tramonte potevano arrivare fin lì e, soprattutto, guardiani inamovibili della furia del vento di tempesta. E si sa come sono i giovani. Purtroppo.
Quei cipressi erano troppo vicini gli uni gli altri. «Chissà perché» si chiese quello scavezzacollo. E da scavezzacollo li tagliò, facendo spazio per il nuovo passaggio del trattore e della trebbiatrice acquistati in una fiera del norditalia e fatti arrivare fin lì dio sa come.
La tempesta si sentì già dal mattino. E come tutte le tempeste della Piana sarebbe arrivata dal mare. Lontano. Una striscia d’azzurro commisto al cielo e col cielo confuso. A volte.
Diana, la cagna, si acquattò nella sua tana, tra le mie radici, fin dallo spuntare del sole e non si mosse per niente durante tutto il giorno e la notte. Gli uccelli se ne stavano tra i rami di noialtri alberi come a proteggersi da qualcosa che ancora non si sentiva, non si vedeva, ma che arrivava come un sospiro lungo e doloroso. Io immaginavo uno sconquasso del terreno con quel sibilo lugubre e lontano che, dalle viscere della terra, arrivava su su fino a far tremare la polvere delle strade e crollare le armacere, quei muri a secco attaccati con lo sputo d’umano ma che d’umano non avevano niente.
La tempesta scoppiò improvvisa. Veniva dal mare. Come ho detto. Il vento impetuoso portava, immischiate con l’aria compressa e impazzita, millanta goccioline di salsedine che si abbattevano su di noi. Sferzando le foglie e i rami. La pioggia, altre volte benedetta dalle nostre radici e sempre portatrice di vita e salute, si trasformò in un mare di acqua impronunciabile. Il vento in un mostro gigantesco. Un ciclope cieco e ululante che iniziò a scuotere tutti noi avendo trovato libero sfogo alla sua furia nella breccia dei cipressi, causata da quello sprovveduto giovane. Terribile nella sua cocciuta volontà di sterminio. Spaventoso nella potenza che si abbatteva sulle nostre fronde che, altissime, inutilmente si facevano scudo le une dalle altre. Il gioco tremendo di quella forza devastatrice ebbe la meglio. Non ricordo il momento in cui fui strappata dalle mie radici e abbattuta da un lato, asfittica, morente, sul terreno. Dopo di me cadde Ottobrarico, e Ped’i sorta e Caloredu. Per tutta la notte il vento ci sommerse di grida spaventose. Lo scorrere dell’aria umida nei vuoti e nei pieni delle nostre fronde provocava un lamento ottuso e lugubre, forte e travolgente che si arricchiva sempre più di scrosci e di tonfi assordanti. Man mano che cadevano gli ulivi, gli aranci, che collassava un tratto di vite, che schizzavano via le tegole dei casolari, che si spalancavano le porte delle stalle e il muggito delle mucche e dei vitelli si perdeva in quel terrore.
Il giorno dopo, il 1 gennaio 1980, nessuno di noi era più in piedi. Solo una piccola parte delle nostre radici stava dentro la terra. Tutto il resto era strappato dal suolo ed esposto. Violato il più intimo abituro delle nostre fondamenta. Disperavo del mio futuro e mai avrei potuto immaginare quello che, almeno una parte di me, sarebbe diventata.
Ora sono madre.
Le mie fibre, dove prima scorreva la linfa, ora hanno preso forma di membra materne. Dalla mole di un mio ramo sono rinata io ed è nato questo figlio, finito a cera, morbido, silenzioso, che guarda lontano mentre riposa tra le mie braccia. Che tiene la mia mano ma col piede già si muove. Pronto a togliersi dal mio abbraccio per andare altrove e cercare le sue radici. Quelle radici profonde, forti, arcane che sono anche mie.