ANGOSCIA

Stava per scrivere gelosamente alcuni appunti nel diario, quando una freccia di sole passata inosservata tra i battenti socchiusi della finestra, andava a infrangersi sopra la scrivania, permettendo al piano di vetro il proiettare la luce, ancora verso la penna, la quale, guidata dalla mano rapida e sicura sembrava dipingere l’immagine del suo pensiero.
Aggravato, dal peso del costante lavoro, il dott. Ruggeri si sentì compresso da un’aria chiusa, che inesorabile lo ostacolava nello scorgere i primi segni primaverili, che di là della siepe, agevolavano il germogliare delle fronde per dar forma gradevole al giardino, in attesa della stagione. I suoi impegni, non gli concedevano la possibilità di ottenere un attimo di distensivo riposo, per mezzo dei quali avrebbe potuto contemplare, vagando oltre se stesso, la fragranza dei primi boccioli di fiori e assorbire del loro profumo, che benevolo cominciava a invadere l’intorno.

Come medico chirurgo, aveva promesso a se stesso di dedicare la sua vita all’espletamento della sua professione, considerandola una missione per la guarigione di molti sofferenti, ma la stanchezza per le lunghe ore di attività declamava riposo e tranquillità. Ragione per cui in quel momento non avvertiva lo svegliarsi della natura o il canto degli uccelli o il profumo dei fiori, del sole mattutino o del giorno raggiante, perché tutto il suo essere era invaso dalla volontà di curare tutti i suoi pazienti i quali fiduciosamente speravano in una pronta guarigione.

Un giorno lo vidi all’ospedale, mentre si allontanava dal suo ambulatorio, con il volto sommesso e l’aspetto impietrito; mi diede l’impressione che la sua mente era fra le nuvole e i suoi occhi erano socchiusi, raffigurante l’atteggiamento di chi è sconfitto e senza speranza. Ciò mi fece angosciare alquanto che, spinto dal sentimento d’amicizia, mi avvicinai verso di lui e lo salutai, chiedendogli della sua salute. Non seppi proseguire, quando vidi i suoi occhi languidi, come se fossero stati adombrati e afflitti da una cattiva notizia, e subito come a chi arde il cuore di saper notizia, gli chiesi il motivo di ciò che lo affiggeva.
Gli dissi: “Cosa c’è che non va, dottor Ruggero”? Egli, come se venisse da un’altra dimensione, mise insieme alcune parole e rispose: ”Oggi ho perso una cliente”. Non capii il significato di quelle parole e senza riflettere gli risposi di non preoccuparsi poiché se una cliente era andata, certamente un’altra ne sarebbe venuta.

Ma la risposta del medico non si riferì a quello della perdita di una paziente per avere scelto un altro dottore, ma quella paziente era morta perché il suo cuore non aveva resistito all’estrazione d’un tumore maligno. Quella risposta, fu per me, come un tonfo che cadde involuto in quella consueta realtà d’incontro. Coinvolto, fui anch’io da quello stato d’animo e non seppi trovar risposta né soluzione. Fummo, invasi da un cordoglio in un’atmosfera depressa e malinconica, che senza far troppi discorsi silenziosamente abbassammo il capo e ci riponemmo in un momento di riflessione.

“Come può il Signore permettere queste cose”? Egli interruppe. Non lo so, risposi io ammaliato. Mi ricordai, però, tra i dubbi e i misteri della vita, delle famose parole del vangelo San. Giovanni 9:13, in cui i discepoli avevano chiesto a Gesù il perché quell’uomo fosse cieco. Era perché lui aveva peccato o suo padre o sua madre, forse lo furono? Ma Gesù rispose che né lui né suo padre né sua madre avevano peccato, ma che ciò è avvenuto affinché le opere di Dio siano manifeste. Quando ci troviamo nella disperazione e avvertiamo l’isolamento da ogni fonte d’aiuto e abbiamo davanti i sentori dei rulli della morte, allora ci ricordiamo che vi è un Dio potente e generoso.

Mentre prima abbiamo, forse, ammesso la sua inesistenza come spregiudicati esseri che non riconoscono il bene ricevuto. Nel momento culminante del respiro terrestre, mentre s’indirizza l’ultimo sguardo alla natura e di colpo, ammettiamo che Dio esiste ed è forte, ed anche buono a perdonarci.

Discutendo sulle cause di quel male incurabile e i modi di poterlo prevenire, presero corpo nella nostra confusa visione ipotesi senza sbocco e il colloquio proseguì, alla fine, senza obiettivi idonei a darci una soluzione, mentre aggiravamo la realtà, illudendoci che forse quel male, non avrebbe colpito noi. Dopo ci siamo salutati ognuno per continuare il ciclo meccanicistico della vita. Per contrastare quel pessimo e indesiderato momento decisi di uscire con la mia moglie, ma per il dottor Ruggero la questione non si fermò lì. Il suo stato psicologico lo spinse ad andare a casa e ad approfondire lo studio sulle cause di quel male.

La sua ricerca andava operosa e si avvaleva di tutti i seminari nei quali era stato nei vari paesi, ma non trovava la risposta. Gli sembrò ad un certo punto, che la scienza segnasse il passo. E per un immaginario riflesso, nel suo intimo, pensò se potesse essere anche lui effetto di quel male, così andò allo specchio a guardarsi attentamente il volto ma nulla trovò in un così rapido esame perché fu più un atteggiamento di rassicurazione che una vera visita. Crescendo, il lui il sospetto di essere effetto dal male, decise di ritornare il giorno dopo all’ospedale a farsi le analisi necessarie per l’accertamento e allontanare così ogni ombra di dubbio. Mentre i suoi occhi lo indirizzarono a inquadrare la natura, quasi per incanto, una fragranza lo rassegnò dandogli la forza di una perspicuità di vivere.

Fu dopo diversi mesi che andando a trovare un mio amico decente in ospedale, mi recai nello stesso reparto dove mesi prima, avevo incontrato il dottor Ruggero. Mentre m’introducevo attraverso il salone poi nei corridoi, nel vedere gli ammalati, provai una sensazione strana, di essere diverso da tutti gli altri, come se mi trovassi in un altro mondo, ove non vi era una persona sana. Svolgendosi tutto nella normalità delle mansioni che mi sembrò che al contrario, che l’unico ammalato ero io.
Poi uno strano stridore pervase nell’aria e fece eco tra le pareti del corridoio, che mi sembrò d’essere in un’officina, che in un ospedale. Era una lettiga che usciva lentamente dalla sala operatoria, nella quale un uomo sotto anestesia era accompagnato da due infermieri e dei parenti. Un quadro che esprime la reazione e il sentimento d’affetto dei cari che lo assistevano con gli occhi, provando una gioia contenuta, tale che preoccupazione e letizia fossero miscelate nei loro volti.

Fu qui che intravidi il dottor Ruggero bisbigliare con alcuni dei suoi colleghi, avvolto in una profonda espressione d’interesse, con il volto roseo come se fosse stato sotto tensione e la sua arguta spigliatezza mostrava segni di ottimismo. Non potette esimersi dal nascondere al mio sguardo alcune sfumature e segni di quello che avevamo discusso prima, sebbene in quel momento, egli li nascondesse con un delicato sorriso. Così lo salutai e lui compiaciuto, mi rispose con rispetto, facendomi cenno di aspettarlo nel corridoio. Dopo qualche minuto, allontanatosi dai suoi colleghi, si diresse verso di me e ci salutammo con cordiale affetto, chiedendo delle nostre famiglie e degli affari.

Mentre discutevamo, tra una parola e l’altra, si accostò alla parete, e presa nella tasca una siringa, e se la iniettò nel braccio. I miei pensieri furono confusi nel vedere quel comportamento e fui in dubbio, se pensare a quell’atto se fosse una semplice cura o un vaccino per l’influenza. Egli, allora, mi rispose amaramente: “Sono affetto da cancro, se non mi faccio una puntura di antibiotico ogni sei ore, morrò”. A tal detto, un’onda vertiginosa di silenzio tragico si avviluppò tra di noi e si sovrappose repentina tra il mio aspetto attonito, intenso di rammarico e di ardita incredulità ed il suo sguardo plumbeo e mentre accresceva in me tremolii di compassione e di tenerezza, il mio cuore, dando stimoli si contrazione e di dolore, mi fece sentire la gravità  di quello strano sentimento e del preludio della sua morte.
Non seppi trovare una ragione o una parola, che gli potessi assicurare una opinione diversa o una soluzione ad eluderlo da quell’ombra di inevitabile disastro. Sembrò che un immane peso della natura avesse ostacolato il progredire del passo della vita del dottore. Ma certo che anch’io mi risentitii vulnerabile a quel male, poichè non ne potevo essere esonerato, ne gli altri lo possono. Così con l’alternarsi di un pensiero e di un dubbio, come reciprocamente si fossero scontrati il mutuo battito del mio cuore e il suo, offuscati da un tremendo timore d’oblio, scorsi le lacrime nei suoi occhi, che guardavano il cielo senza speranza, pur cercando un appiglio d’aiuto.

Ed interruppe:”Signore, che l’aiuto, la salvezza, il miracolo, la guarigione, la vita, ti appartengono. O Dio, che ti nascondi tra le vie contorte della mia disperazione e tra i grovigli della mia angoscia, ascolta questo mio grido di dolore, di un cuore che cerca disperatamente la guarigione. Dov’è il tuo impeto quando riducevi a nulla ogni apparenza di male? Io so che sei grande e Santo e Dottore dei dottori, ma or io sono inerme, mentre il male lentamente mi invade. Ascoltami Dio Salvatore, manda un angelo guaritore a liberarmi dalla ferocia di questo male” E si allontanò salutandomi appena. (fu guarito, poi, con la chemio‐terapia).